Oreste Zevola
Il dolce male
Ci sono dei luoghi dove la parola “ lontano” ha un
valore relativo. Le ore d’aereo che ti separano dal posto
in cui vivi abitualmente si moltiplicano a dismisura perché,
la vita stessa e le regole in cui hai creduto fino a quel momento,
mutano, vacillano, per accompagnarti in una nuova dimensione dove
tutto sembra coincidere e fondersi insieme naturalmente. E’
facile lavorare in Africa perché ciò che tu disegni
è vicino a ciò che tu vivi: la creatura fantastica
che abita il fiume è sorella di quella che appare sulla
tela. La gente che incontri ti regala luminosi sorrisi e ti chiedi
perché in un luogo così ci sei caduto dal cielo
e non ci vivi da sempre.
Questo breve testo scritto alla fine del mio primo soggiorno in
Centroafrica esprimeva in maniera sintetica il mio impatto con
il continente africano.
E’ vero, l’Africa non è solo questo, è
anche povertà, malattia, ingiustizia e per noi il grande
disagio nel costatare che anche questo nuovo millennio si è
aperto su un pianeta abitato da alcuni uomini che vivono e da
altri che tentano di farlo.
Quello che ho però scoperto in seguito è che una
volta provate quelle semplici a straordinarie sensazioni non le
puoi più dimenticare. Quel dolce male che molti chiamano
“mal d’africa” non è stato inventato
dagli operatori turistici ma è qualcosa di reale e molti
degli “europei” che ho conosciuto in quel paese me
lo hanno confermato.
In Africa volevo ritornare, soprattutto per stabilire l’intenso
flusso tra quella terra e la mia mano, un flusso che mi ha attraversato
già a poche ore dall’inizio mio primo viaggio.
A maggio del 2004 con il prezioso aiuto della Alliance Francaise
ho quindi dato vita ad un progetto che si sarebbe concluso nel
marzo 2005 e che aveva come soggetto, la capitale della Repubblica
centroafricana, Bangui e la sua vita di tutti i giorni.
Due viaggi in quella città e uno più breve in quel
paradiso tropicale che è la foresta pluviale di Dzanga-Sangha,
hanno reso possibile la realizzazione di una mostra e di una pubblicazione
che, in omaggio all’originalità e alla singolarità
del vivere centroafricano, prende il nome dall’insegna una
“cave banguissoise”: Tue
moi ce soir.
L’immagine riferita a questo locale e le altre che compongono
la serie mi
sono state suggerite da quel flusso che, partendo da una quotidianità
semplice,
mescolata alle leggende ancora così presenti nella vita
di tutti i giorni, mi ha guidato in una città che vive
nel paradosso di un’identità reale, confrontata e
contaminata dalle lusinghe e dalle differenze di paesi lontani
e inaccessibili.
Nella convivenza di vecchio e nuovo, di povertà e consumo,
le peculiarità di questo mondo distante, ma contemporaneo,
che riesce a fare degli stessi simboli di un consumismo ad esso
negato, una rielaborazione originale, “rubando” parole,
oggetti e icone ad un’Europa lontana.
Il dolce mal d’Africa si è trasformato “naturalmente”
in disegni e dipinti: un modo forse per curarlo in attesa di un
nuovo appassionante viaggio.
Oreste Zevola Napoli 25/ 05/2005
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