Oreste Zevola

   
Home    News   Painting   Drawing   Jewels   Sculpture  Ceramic  Installations   Bio   Contact
 
 

Di acqua e di fuoco
Goffredo Fofi

Oreste Zevola  A sweet malady
foto dell'installazione
 
  I personaggi che Zevola illustra hanno finito col formare nel tempo una pagana tribù di dèi e semidei che potrebbe sembrare imponente per il numero e la varietà dei suoi membri, non fossero essi di così lieve consistenza, fatti di forma, bidimensionali e mutevoli e di pochi scelti colori. Come quelli di questa ultima mostra, diversa dalle altre per la grandezza delle figure, nuvole ritagliate nel bianco, nere e rosse (e il rosso è sangue di bue o pompeiano o non so cosa, ma non acceso e irrompente: un’aggiunta al nero, senza vero contrasto, per una migliore definizione del tema) sul consueto fondo bianco: e sono rosse le fiamme eruttate dai vulcani, e le teste di mobili pesci che sputano a loro volta, dal rosso, fiamme nere di vento, oscuramente allegre.
Sono grandi, queste silhouettes, come è ovvio per dèi e semidei, anzi enormi; e fissate nell’attimo di sospensione del movimento che le spinge, immobili dentro la loro danza innaturale, o magari più che naturale. E siedono sulle fiamme, o portano fiamme, e giocano con i vulcani e le loro fiamme, e hanno vicino alberi carichi di pesci, e dai loro corpi spuntano pesci, e i loro tricorni inalberano pesci. Sì, il mare e il vulcano sono il segno di Napoli, ma questi armonici giganti o gigantesse, asessuati o sessualmente stilizzati, sono più che Napoli, o sono una Napoli delle origini più lontane, il mito della fondazione. Si dice che le città della Sicilia orientale siano state fondate dai Giganti, e perché non Napoli, allora, altro mare e altro vulcano, vicini anzi fratelli? Le stesse acque, lo stesso fuoco. Giganti e gigantesse giocano, danzano, portano doni e offerte, navigano o volano accompagnati dai pesci e dalle fiamme, che sembrano guizzare all’unisono, allo stesso modo, in una perenne allegria della natura. Perfino gli alberi hanno nel loro tronco, come radice, la fiamma; e non ardono, non ne sono distrutti perché quella fiamma è la linfa che li innerva, è la vita del tutto.
Fuoco, acqua, e l’aria del movimento. E l’animale e il vegetale grandiosamente sublimati, esaltati, a servizio non dell’umano-animale ma del sovrumano, della Natura cui tutto appartiene. Zevola scava nel Mito, e per farlo trascura e dimentica la Storia e la Fiaba, ma non il Pensiero, la filosofia – riportata all’indietro, alle inquietudini e alle domande dei presocratici, o dei primi a interrogarsi sul mondo, sulle sue origini e la sua essenza: sugli elementi che lo compongono e su coloro che l’hanno creato e ne hanno, per primi, goduto
Non è un realista, Zevola, che guardi al presente e voglia descriverlo o denunciarlo; vuole anzi andare molto molto all’indietro, o guardare molto molto oltre, e sentirsi libero di immaginare l’essenza nascosta, limpidamente, senza preoccuparsi di dover constatare la morte degli dèi e il dolore delle mutazioni sofferte (ricordiamo il cardillo, il puma, l’iguana di Anna Maria Ortese avviliti dalla Storia e dalla Ragione).
La polemica di Zevola con il presente sta, semplicemente, nella scelta di trascurarne le apparenze che ci si impongono e ci opprimono, nel dimenticare-negare la volgarità che distingue il presente, con le sue compiaciute e criminali violenze, con la sua accettazione e la sua pratica del male, con il suo rifiuto del naturale e del sacro, con la sua guerra, al contrario, al naturale e al sacro. Questo è un modo estremo, ma nient’affatto gratuito di confutare il presente, di non accettarne le convinzioni e le convenzioni. Ed è questo, mi sembra, il primo carattere della sua opera, la sua insistenza, l’ostinazione che distingue anche le più frivole e giocose delle sue invenzioni e delle sue costruzioni. La spinta, il moto, il fuoco delle origini. E la loro allegria.